lunedì 23 luglio 2007

L'obbedienza non è più una virtù, ma qualcuno non lo sa! Riporto dal sito di Peace Reporter


Italia - 23.7.2007
La fede e le armi
Due sacerdoti scrivono al direttore di Avvenire a proposito di cappellani militari
Pubblichiamo ben volentieri la lettera aperta che Don Renato e don Salvatore hanno scritto al direttore dell'Avvenire. Riapre la discussione su un tema troppo spesso lasciato in secondo piano: quello della coesistenza tra una fede religiosa che "comanda" di non uccidere e il fare la guerra.
Di più: perché qui si discute di coloro i quali, sacerdoti della fede che comanda di non uccidere, vestono addirittura la divisa. Non sappiamo se questo dibattito crescerà come dovrebbe. Ma ci proponiamo, nel caso l'Avvenire non accogliesse l'invito dei due sacerdoti che han scritto, di ospitarlo volentieri. (M.N.)

Gentile Direttore,

abbiamo letto l’editoriale di Marco Tarquinio
su Avvenire del 19 luglio u.s. “Irrinunciabile presenza tra gli uomini in
divisa”. Non nascondiamo il nostro stupore e disappunto perché, a partire dal
titolo, sembra che non vi possa esserci alternativa all’attuale forma della
presenza dei cappellani tra i militari, considerata dall’autore
‘irrinunciabile’. Al pari di valori e verità non negoziabili? Siamo parroci,
impegnati tra la gente da molti anni, in luoghi diversi dell’Italia al Nord e al
Sud. Avvertiamo una crescente sensibilità e attesa dei credenti per una Chiesa
capace di scelte più audaci e credibili. Da diversi anni, nella stessa Chiesa
italiana vanno emergendo riflessioni teologiche e proposte pastorali che mirano
a rivedere lo status dei cappellani militari. Già parlare di preti con le
stellette o di chiesa militare induce a considerare gli stessi cappellani
organicamente inseriti nel sistema gerarchico delle forze armate, con relativi
gradi, carriera e stipendi. Non è da mettere in questione, secondo noi, la
necessità della presenza religiosa e l’assistenza spirituale nelle caserme, ma
l’opportunità di smilitarizzarne le forme e le norme che oggi la regolano, come
ad. es. già accade per la Polizia di Stato. Sarebbe un segnale positivo non solo
nella direzione di una matura laicità dello Stato, ma anche della necessaria
libertà della Chiesa.

Abbiamo riletto proprio in questi giorni,
nel 40° anniversario della sua morte, la Lettera ai cappellani militari di don
Lorenzo Milani e vorremmo che il suo ricordo non si riducesse ad un rito di
sterile riabilitazione celebrativa. Riteniamo doveroso ripensare con serena e
rinnovata consapevolezza alle radici evangeliche della chiesa per proseguirne il
cammino alla luce del Concilio Vaticano II e dell’esperienza di tanti testimoni
e martiri di ieri e di oggi. I cristiani “sono nel mondo ma non sono del mondo”.
Sono “nel” sistema, come amava dire P. Turoldo, ma non sono“del” sistema.
“Abitano una loro patria, ma come forestieri; ogni terra straniera è patria per
loro e ogni patria è terra straniera” (Lettera a Diogneto). Aver ceduto nel
passato alla tentazione di coniugare la croce con la spada o aver stretto
alleanze fra trono e altare, sia pure per nobili fini di evangelizzazione e di
civilizzazione, ha portato la Chiesa a conseguenze spesso nefaste e disastrose.
“Non si addicono alla Chiesa i segni del potere - ci ricordava don Tonino Bello
– perchè le basta soltanto il potere dei segni.” Nel rispetto delle proprie e
delle altrui competenze e responsabilità, la Chiesa è chiamata certamente a
portare e a testimoniare il Vangelo anche tra i soldati, ma facendosi eco di
quella Parola profetica e non negoziabile: “rimetti la tua spada nel fodero,
perché chi di spada ferisce di spada perisce”. Parola che può suscitare
derisione, rifiuto e può portare al martirio, ma diventa seme di speranza per
quanti cercano giustizia senza violenza e pace senza tornaconto. E’ tempo allora
non più di cappellani militari, ma di cappellani tra i militari. Cappellani con
il coraggio di ripetere, all’occorrenza, come mons. Romero: “Soldati, vi prego,
vi supplico, vi scongiuro, vi ordino, non uccidete più..”. Cappellani che,
sostenuti dai Pastori e organicamente inseriti nella vita delle comunità,
promuovano anche lo studio e l’attuazione di nuovi sistemi di difesa
nonviolenta, in alternativa ai modelli ‘armati’ delle missioni di pace.
Cappellani liberi da mimetiche e stellette, da stipendi e privilegi, a servizio
di un Dio che difende sempre la vita, e non di un potere, sia pure legittimo,
che può dare anche la morte.
Non sarebbe questa una scelta da compiere, in
modo unilaterale e preventivo, per dovere di coscienza cristiana e di fedeltà al
Vangelo, senza attendere una legge dello Stato, vissuta o subita come una
forzata privazione di un irrinunciabile diritto?

21 luglio 2007

Don Salvatore Leopizzi, parroco a Gallipoli, (Lecce) Don Renato
Sacco, parroco a Cesara, (Verbania)

1 commento:

Anonimo ha detto...

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André Benjamim